Il centro, la periferia, l’abitato.
Quasi come eredità psichica ed immaginaria, nell’homo sapiens si esprime questa qualità geometrica e spaziale alla costruzione. Le abitazioni, le abitudini sono da sempre l’abito mentale degli uomini. Il suo passato nomadico e di piccoli gruppi nomadici sono alla sue spalle quando nelle alte valli siriane e mesopotamiche sorgono i primi villaggi rurali, con gli innesti agricoli, già geometricamente definiti, le nicchie ecologiche che permettono la domesticazione, la cacciagione stagionale e non solo più perenne. La foresta cede il passo all’abitato, la grande esperienza del viaggio e della sosta ha prodotto una sapienza dei luoghi, delle coste e dei fiumi, degli attrezzi e degli utensili, che allontana l’uomo dai chopper e lo avvicina al mattone. Anche nella Bibbia questo passaggio è registrato come discrimine fondamentale, da una primitività incosciente ad un uso civile della materia e dei materiali, nella parabola tutta ebraica dei mattoni, della Torre di Babele, della intercomunicazione/ confusione dei linguaggi e dei popoli, mescolanza rilevante di una interazione dei gruppi etnici e lessicali; opera dunque di un cervello collettivo dei maestri d’opera così importanti in questa fase della comunità allargata alle famiglie e poi ai clan. Nella fase protostorica dunque a dettare la forma degli abitati è indubbiamente il territorio, il clima, le risorse e la consuetudine alla vita sociale dei primi gruppi umani, che dal 9000-8000 avanti Cristo si stanzializzano dentro un’area che comunemente chiamiamo mezzaluna fertile. Le lance, le asce s’incurvano e diventano falcetti per la mietitura, percussori e cunei di rame e di metallo, diventano ‘artrum/artrom’, protesi estensive della mano e del braccio, gli artefatti.
La forgia e la fucina sono all’ordine del giorno già da tempo. La prima mappa conosciuta di un impianto urbanistico asiatico primitivo, la mappa di un villaggio di palafitte, a pianta centrale da cui si diramano i sentieri che portano al suo confine ai percorsi di animali domestici, al confine topografico della comunità di villaggio che sta celebrando una festa o un rituale di sacrificio, è nelle pitture di Cangyuan, nello Yunann. Lì i fiumi, le valli e i grandi anfratti montagnosi permettono ai gruppi umani di scegliersi la sede e la conformazione del territorio da destinare ai depositi di cereali, alle abitazioni vere e proprie, all’incanalazione delle acque, alle aree per il lavoro dei campi e della cura del bestiame. A Chatal Huyuk ad esempio gli alloggi per gli uomini sono abitati addossati ai monti in una pianta informe, bilocali con l’accesso dall’alto attraverso una scala e che consentono alla famiglia una mensa di pietra, un locale da cucina con focale e separatamente una stanza per dormire. Il pasto viene consumato fuori all’aperto, condiviso con altri gruppi se il lavoro comune nei campi o nella caccia prevede una spartizione egualitaria. Solo successivamente questo primo impianto urbanistico diventa l’urbs, la città, dove i gruppi umani si danno delle strutture civili e poi in ultimo palaziali, quando la divisione del lavoro e dei gruppi è ormai distinta come fase politica dell’umano. La popolazione urbana ormai è una pluralità, i ruoli, le gerarchie, le abilità, sono fissate entro norme rigide e non più fluide, permeabili alle necessità della caccia e della guerra.
Le norme di Manu ad esempio sono nella civiltà indica estremamente dettagliate circa questa fase che per esempio, trova esplicita organizzazione nel codice di Hammurapi. Nella civiltà cinese questo tipo di legislazione è estremamente procedurale e divinatoria. La coeva e successiva divisione in caste è presente nelle civiltà di Urartu, Harappa, Moenjo Dario, culture della valle dello Yangtze, dei gruppi semiti-cananei, nei gruppi asiatici, nelle popolazioni indoarie. Spicca dunque nella fase di stabilizzazione politica la classe sacerdotale i Levi, i Cohen, i Caim per i semiti, gli ksatria e i kavi prima e i brahmana dopo per gli indoiranici, i divinatori(pu) e i sacerdoti(wu) nella Cina arcaica, classe che esprime anche la burocrazia politica e divinatoria, del diritto civile e sacerdotale, cui il rex, il legislatore, il basileus, lo ksatr deve non solo il rispetto ma anche le cerimonie di iniziazione alla sua dignità di primus caps, di princeps, del suo carisma come mandato celeste, kudo per il mondo miceneo e greco, de per la Cina antica, massiah per il re mandato, unto ebraico. L’origine celeste della regalità, il suo mandato celeste (tianming per l’antica Cina) è un fatto comune a questo stadio di evoluzione storica per tutto il Vicino oriente, il Medio oriente e l’Estremo oriente. Le genealogie divine dei sovrani testimoniano, nella memoria degli scribi di corte, questa necessità. Il diritto comunitario e familiare definiscono i limiti tra clan, status sociale ed evidenze delle élites che sono in questo modo chiaramente e così definite. E’ dunque nella fase avanzata dell’urbanizzazione che emerge perentorio lo rto/rta, il diritto, le regole, le cerimonie e le scansioni temporali e dunque ritmiche, aritmetiche dell’aggregazione politica dell’umano. Sembra quasi che la regula sia il prodotto delle tecniche e dei riti. Le antichità vediche ci indicano chiaramente questo.
Una disciplina ferrea, quasi ossessiva permea dall’alto al basso il sociale-politico come primo luogo comune avanzato, conosciuto, dopo la comunità primigenia. E’ evidente dunque che le cerimonie, il rito e il culto degli antenati, costituiscono il fondamento statutario su cui stabilire le regole dell’agire umano nel nuovo contesto civile. Chi fa e come, è tenuto, nell’ambito delle sue competenze regali, sacerdotali o servili di eseguire il gesto, l’atto operativo/comunicativo in modo: a) pubblico b) intellegibile c) e successivamente rituale, rispettoso del regolamento orale e poi scritto. Il primo atto che definisce il territorio, la territorialità di questa comunità urbana è il suo limes, il confine con tutto il resto. Confine geografico ed etnico, che un magister auguralis, un sacerdote istruito nell’agrimensura del sacro, nella limitazione di un ager o di un campus sa come definire in quanto luogo sacro della comunità. La soglia liminare, la pietra d’angolo e il recinto sacro, sono i primi segni di questa grammatica del rito, la ritualità, le procedure ordinate (-ordo in latino, ardu in avestico-iranico, rto in sanscrito) che mettono in moto, agiscono, fanno l’ortosintassi della fondazione che è themis, la trascendente linea di coordinazione tra il celeste, il divino e il terreno, che da humus diventa sacer, ager sanctus, ierophanè, ierofania, manifestazione dell’atto sacrosanto; la giustezza che è anche jus, yoga, giogo, legamento col sacro, la linea per dritto, l’ordo universalis, che da questo momento definisce il giusto e lo sbagliato, il diritto e il rovescio, la linea manca e la linea diritta (la sinistra e la destra), l’atto sano (fas) da quello nefasto (nefas), e dunque anche il suo crimen, il suo essere reato, il suo essere un atto punibile. In riferimento al suo essere diritto celeste, ordinamento cosmico, dharma, legge universale ed esso si esprime per la civiltà indoaria in un Signore celeste, Dyaus pitar, Giuppiter, Giove padre, nel (D)yaus dikaios, Zeus della giustizia, come nel miceneo e nel minoico, nel greco, nel latino e nell’indico. Nella cultura Shang (dinastia Shang 1751-1122 a.C.) sono le iscrizioni oracolari su ossa di animali e su corazze di tartarughe a fornirci numerosi elementi sulla ritualizzazione del territorio secondo la topografia dei limiti (un boundary language ante litteram), un diagramma rituale della cultura stessa. Un criterio importante per la delimitazione del territorio Shang consiste nella identificazione di territori non-Shang, il centro e la periferia di un territorio vengono chiaramente identificati con un termine equivalente di limes, fang per il territorio Shang e duofang per il territorio non-Shang.
Così come vengono identificate due città, una come centro politico dello stato Shang (Yin, ‘questa città’, zi yi) e l’altra come centro religioso Dayi Shang (la grande città Shang) detta pure Tianyi Shang (la città celeste Shang). In questo stadio di evoluzione culturale l’epigrafia sacra sancisce la dualità del territorio e delle funzioni della città cinese. La linea, la regula, la direttrice che permette l’epifania del sacro, la sacralizzazione del campo recintato, il temenos (la linea sacra, secondo la giustezza, la misura giusta, la sua epi-steme), è tracciata; la linea geometrica e spaziale è tracciata (l’axis mundi), bisogna solo predisporre il culto e la cerimonia cultuale che attivano questa linea del sacro e successivamente procedere alla delimitazione geometrica dell’ordo, dell’ordinamento, della themis, secondo un punto cardine (cardo) e un punto decumano che sono il canovaccio strutturale, il diagramma rituale, di questa effettuazione secondo la themis, in greco, che corrisponde alla legge universale, cosmica e pratica che in sanscrito è il Dharma e in semitico è la Torah, da una quasi identica radice *Dhrw. Questa tessutazione del terreno, questa scrittura geometrica, questo textus dell’humus, il suo essere mantra invocativo e mandala dell’humus, identifica secondo uno schema, secondo un modulo spazio-temporale il suo essere rytmos, celebrazione rituale, scorrimento, processione rituale e arytmos, processione numerica, procedura degli atti che in sequenza devono, stanno per essere compiuti per la santificazione del campus, dell’ager che fa dell’humus, una cuivilitas, una civiltà. In Roma sono Quirites che abitano il Quirinale, che compongono il collegio sacerdotale, la Curia sacerdotale, che ha un suo magister augustus, un suo pontifex maximus, colui che fa da ponte, da linea corporale, tra gli uomini e gli dei, che ne detta gli auguria, le sue sacrae vocationes, i suoi voti, parole che ne fanno il sacerdote vate; che produce secondo una phonè, la parola santa perché di origine divina, ispirata; è vac, votum, la lex pontificia e lo ius iurandum. Presso i greci è lo archeghetes, l’arconte basileus, che è prophetes nel momento in cui profetizza, pronuncia la parola magica, la parola secondo il rito magico-profetico, che fa la sua prophetia; presso i latini è il magister auguralis, che promuove gli auguria e la effatio, la parola mantrica liberatoria della condizione sacra, della sua themis, della sua didascalia, del suo dichtung.
Presso gli aria-indù sono i bhrahmana coloro che vibrano (*wbr), la parola (vac) in quanto eredi dei vates, dei veggenti vedici, i Rsi. Nei Celti-germani sono i sacerdoti Druidi. Nella cultura cinese antica sono i divinatori pu e i sacerdoti wu. Coloro che costruiscono la casa, le città sono abili poeti, i kavayah dell’inno vedico AV, III, 17 e come espressamente viene detto nell’inno AV, IX, 3 Brahmana salam nimitam (Questa casa è fondata sul culto). R. Pannikar come introduzione a quest’inno: ‘La casa non è solo un riparo per il corpo, è un riparo anche per il mondo intero perché spesso il sacrificio verrà officiato in casa. Infatti la parola sala stava ad indicare innanzitutto l’edificio sacrificale e solo in seguito… assunse il significato di abitazione. Poiché il sacrifico è il centro della casa e della vita familiare dell’uomo, si dice che la casa viene costruita da brahman, dall’azione liturgica e dalla parola sacra, che è progettata dal kavi, il poeta o il saggio, ed è la dimora di rta, dell’ordine cosmico’ (R. Pannikar, I Veda, vol. I, pag. 394, Bur).
Il rito di fondazione è dunque il primo atto costitutivo, la sua prima condizione (il condere urbem), di un luogo comunitario che costituisce il suo ager cintus, il suo luogo recintato, il suo temenos, il suo dharmadatu, definito geograficamente e geometricamente. Il circolo entro il quale avviene la sua themis, la sua legislazione fondativa, il suo fondamento costitutivo, il suo essere communitas, gemeinwesen, polustheia. Il limite oltre il quale (extramoenia) ed entro il quale (intramoenia), la comunità è protetta sacralmente. Quel magister, quel maddix, quel sacerdote magistrale sa per esperienza e per dettato normativo come va ritualizzato un territorio secondo delle regole che costituiscono anche il diritto, la legislzione della città, il suo ius iurandum, il suo essere votum. Il Rito dunque themizza, legifera e sacralizza tutto il locus communis, a memoria di un altro primigenio, ancestrale luogo sacro, il lucus, il luogo-non luogo, il forum dentro la foresta che permette la penetrazione del lux, della luce in contrapposizione alla nux, alla notte. Dove viene eretto il primo altare sacro di pietra, che è la prima res aedificatoria, la prima cosa da edificare, il cui aedilis, il cui aedo, poietes, è anche un magister sacer aedilis, il suo agrimensore. Geografia dei luoghi e teologia onomastica servono a stabilire questa limitazione, il suo recinto sacro, entro cui il suo prophetes, il suo magister augustus, il suo brahmano, pronuncia i voti, le sue parole beneauguranti, le sue hawugas, le sue vauces, le sue voci, il suo sibilare la voce. Il principio archeologico va mantenuto. L’archegheta pone sopra e al centro della fondazione, il sacramentum, le divinità giurate, le antichità prescritte, secondo un principio fondativo, fondamentale, e la sua archè, la sua arce, luogo cuspidato che è anche l’axis mundi che illumina, dà senso alla comunità, il suo templum, il luogo dello spazio e del tempo sacro. E’ Frontino un gromaticus, un agrimensore del I sec. d.C. a farci intendere cosa sia un templum nel modo sopradescritto.
E’ l’universo quadripartito partendo da un centro di un cerchio, l’orbis terrarum, che viene suddiviso in una parte destra e una sinistra e poi ancora in parte a sud e a nord secondo una linea discendente, cardo e una linea secante, decumano. Lo scopo sacrale del quadratio, regionum descriptio è trovare la parte favorevole, dove cioè il sacerdote può riconoscere i segni favorevoli, il sacerdote che opera con il suo bastone divinatorio, il lituus. Siamo cioè dentro una serie di che sono il frutto della intuizione divinatoria e della sapienza tramandata. Una teologia dei nomi e dei luoghi, un diagramma rituale che descrive, sacralizzandolo, il territorio. E’ così per lo Zigurrat, è così per il tempio greco,è così per la tenda sacra, dove è conservata l’arca contenente la disciplina liturgica fondamentale, la Torah; sarà così per l’ashram indico, dove avviene la puja, la cerimonia sacra del fuoco, l’agni gothra all’aperto e al chiuso. L’agni gothra ultima memoria vedica ancora presente in India, la cerimonia del fuoco, avviene dopo che è stato costruito un fabbricato in mattoni che lo cinge, cerimonia e gesto simbolico del fuoco vivo, del focolare e delle Vestalia che dominano il mondo arcaico indo-ario e asiatico in particolare. L’antico rito sacrificale vedico dell’agnicayana (letteralmente accumulo dell’Agni) ancora praticato dai brahmani ultraortodossi, detti Namburi, del Kerala. Questo rito richiede la costruzione di un altare del fuoco a forma di uccello composto da più di duemila mattoni (iṣṭaka). Il rito ha la durata di dodici giorni, e durante la costruzione occorre, tra l’altro, la recitazione di specifici mantra estratti dal Veda. Sembra quasi che questo rituale, tranne poche eccezioni, segua un percorso prestabilito dentro procedure, modelli e una vera e propria cybersintassi di complicatissime dimensioni, un ipertesto in cui la scrittura è a quattro, dieci e a volte 24 dimensioni. Segua un modello matematico altamente complicato. Scrive R. Calasso in ‘L’ardore’, pag. 31: «Perché gli uomini vedici erano così ossessionati dal rituale? Perché tutti i loro testi, direttamente o indirettamente, parlano di liturgia? Volevano pensare, volevano vivere in certi stati della coscienza. Scartato ogni altro, questo rimane l’unico motivo plausibile. Volevano pensare e soprattutto essere coscienti di pensare. Questo avviene esemplarmente nel compiere un gesto. C’è il gesto – e c’è l’attenzione che si concentra sul gesto. L’attenzione trasmette al gesto il suo significato»
E’ nel ricordo italico e latino il flamen, il fuoco sacro e il rispettivo collegio sacerdotale, i flamini, da cui la gens Flaminia e i suoi culti particolari, i Flamina. In ricorso di questo primitivo, ancestrale mos compobratus, in Roma storica si costruiranno gli altari in pietra, compresa l’ara pacis augustea, in memoria dell’antico altare all’aperto, palizzata dentro il lucus. Così come il mandala è in origine lo schema di costruzione del Palazzo e dell’abitato esterno, il centro e la periferia, la reggia sacra, del re sacerdote indo-asiatico, lo ksatria, lo csar, colui che è Rex e basileus e l’intorno della città, l’abitazione dei demoi, delle corporazioni e delle caste. Nella cultura indica il mandala è uno yantra rituale, in cui sono iscritte le sillabe sacre della fondazione del cielo e della terra, è una perfetta ricostruzione dell’abitato celeste e terreno, una regola e un regolamento di come è costruita la città celeste e di come si deve costruire la città terrena, la visione cosmoteandrica dell’universo. In cui sono iscritte le formule sacre e le sillabe da pronunciare, con al centro l’Om, il brahm, il vibratim, la voce vibrata, il flumen e i flumina, la voce e vibrazione originaria. Tutte le città asiatiche, centro ed estremo orientali hanno questo schema del mandala, questo modulo in cui il palazzo regale e la pagoda hanno a pianta quadra il posto centrale e in cui l’abitato civile si distende come prosecuzione laterali dei gradoni della reggia imperiale. Gli asceti, i guru e gli yogi, o i monaci, abitano o il deserto, o la foresta o un palazzo particolare, in quanto shukke, scomparsi al mondo, fuggiti e rinunciatari del mondo del reale trascendente. Il monastero è sostanzialmente un luogo ‘povero’, di ascesi, prosecuzione di questa fuga volontaria dal mondo, ma ritualizzato anch’esso da un pratica comune col segno del sacro, costruito secondo le regole del mandala e del Feng shui, dove i monaci imparano a costruire questa misura del cyberspazio sacro, l’antico mandala primordiale, scrittura sacra del Luogo per eccellenza. I monasteri zen sono ad esempio l’evoluzione pratica e architettonica di questo modello di cybersintassi estetica che traduce il mandala cosmico in luogo di culto, nel suo diagramma mentale. Al centro del quale c’è la sala del Dharma e intorno alla quale si succedono quadrati seriali sostanzialmente concentrici, al confine dei quali ci sono gli abitati di uso quotidiano, e poi il confine ulteriore con il bosco, o la foresta montagnosa, verso cui il porticato coperto guarda come asimmetria sul mondo. Olograficamente ancora il giardino zen, ne costituisce il racconto, la narrazione del suo essere luogo dell’impermanenza assoluta. In uno Yantra del Rajastan per esempio la divinità, la Shakti è rappresentata da un triangolo al cui interno è un pendolo, con cui sorregge i tre mondi e le tre qualità che li sorreggono, satva, rajas e tamas. Nel Sutra del loto questa edificazione è la Grande Reggia dove si manifestano tutte le divinità e i buddha del passato storico, del presente e futuro, ma è anche l’universo profetico del mondo che verrà, la sua apocalisse, la sua Gerusalemme liberata. E’ una memoria così concreta che Marco Polo ne darà memoria fantastica nella descrizione meravigliosa del Palazzo regale di Kublai khan. Nel lamaismo tibetano questa regalità sovrana esoterica è disciplinata attraverso il Tantra, esercizio sacro della rimeditazione del palazzo sacro, dove abita Amitaba, il Buddha delle origini e tutti gli infiniti Buddha dell’antico, del presente e del futuro. La cuivitas, la civitas del cintus murarius ha un suo centro archetipico nel Templum e nella temporalità sacra, il calendario delle regole e dei giorni, i suoi Annales, le sue historiai, i suoi Rig-Veda,i mantarmanjari, i suoi poemi eroici, il Mahabharata e i poemi omerici, gli eroi eponimi, i suoi archeghetes, i suoi fondatori e le divinità che fondano la città-culto: la dea madre, Demetra, il dio padre, Zeus, la genealogia degli dei e degli antenati, fino agli uomini e ai suoi fondatori genetici, quali Prometeo e Cadmo, Arjuna e i Pandeva, il suo uomo primordiale, Purusha Sukta, l’Hadama Cadmon di biblica memoria. La città santa, la città celeste si distingue però dalla città degli uomini, che recintata nei quarter, nel demos, e nei damusi si distribuisce lungo un pendio o la pianura secondo la divisone del lavoro sociale. Solo le caste alte e le corporazioni mercantili hanno il privilegio di abitare nella seconda cinta muraria, mentre il centro viene occupato dagli Aria e dai Brahmani. Nella civiltà palaziale minoica e micenea l’adattamento del megaron, grande atrio centrale del palazzo o della villa, testimonia del passaggio della comunità organica alla comunità politica divisa in classi secondo la divisione del lavoro. La pianta dunque può essere centrale, ovale o quadrata a seconda dell’idea statutaria, la sua themis, che gli archeghetes hanno scelto secondo la volontà augurale del sacrificio di cui parleremo tra poco, il rito di fondazione. Un collegio magistrale definisce dunque secondo questi mores parentum,il mos comprobatus, abitutidini antiche, la memoria dei padri, la successione temporale ritmica e non ritmica (aritmos) di questa ripetizione in serie, di questa ritualità seriale, e in capitoli (le leggi di Manu, i mantramanjari, i codici e le formule, i regolamenti, i libri profetici e sibillini, il feng shui, gli inni sacri) di queste forme (numa e rupa, nome e forma, nome et subsustantia rerum – il vero e proprio brahman, il suo aeòn, l’ayus, la sua essenza; la sua forma e i suoi lineamenta).
Tutto questo è una Regula, un regolamento cui sono tenuti al rispetto tutti, la totalità di ogni genere, perché questa è la themis, il dharma, la costituzione fondamentale, dunque anche la sua parte divina. Il regolamento, lo ius, il legamento (bund) tra cielo e terra secondo una visione comune. Il suo luogo comune dunque, l’abitato, serve all’uomo per vivere secondo le regole dei padri, del padre, e della legge che un magister regalis fa rispettare, la cui funzione è quello di salvaguardare questa unione armonica tra cielo e terra, è esso stesso un pontifex magister. ‘Solo quando gli uomini arrotoleranno lo spazio come se fosse una semplice pelle, solo allora ci sarà fine al dolore senza riconoscere Dio?’ Recita l’Inno SU VI, 20. E sarà sulla pelle di capra o di bue, che l‘Ulisse di Omero e il più tardo Giasone di Apollonio Rodio, scriveranno le prime mappe terresti o di navigazione. Saranno le pietre e i legni oracolari, o la corazza delle testuggini, a conservare le prime parole sacre, le prime sillabe sacre, in India e in Cina, i bija mantra secondo la sapienza ispirata del bramahvidya vedica, o della mantica oracolare greca e cinese. I libri sibillini per l’una, ad esempio, e il libro dei Ching per l’altra. E sono poeti veggenti, abili artisti, quelli che comporranno gli inni, gli edifici oracolari, le sacrae aedes, e le parole ispirate, i bija mantra indoarii e i sacramenta latini: i kavayah indici, i magistri augurales, e i navi semitici nella costruzione dei salmi e degli inni sacri biblici. In questa misura va letto anche tutto il poema virgiliano dell’Eneide, come rimemorazione tarda, restaurativa degli antichi mores, in età augustea, ispirata da quella pietas, da quella antica mater (antiquam exquirite matrem! Eneide, III, 96). Tutto questo secondo i presocratici definisce il pankratos, l’universo intero degli uomini e degli dei, la civiltà vitale, il bios, e la civiltà umana del kratos, della forza consapevole degli uomini. Questa abilità artistica ci è stata tramandata chiaramente dal mondo minoico attraverso il dedaleion, le costruzioni dedaliche, il labirinto e la leggenda del primo costruttore, architetto, sbarcato nell’Europa occidentale in un viaggio simbolico ed altamente significativo. Il mito di Dedalo ed Icaro, che dalle prigioni minoiche approdano alla Cuma d’occidente, quasi a delimitazione e a celebrazione iniziatica di un altro tipo di città e di culto, quello antico-preolimpico e ctonio, la città di Ade. Quello orfico sciamanico, che fonda sacralmente le città e le ordina secondo il rituale catactonio proprio delle città asiatiche-ioniche. Esaminiamo ora il rituale di fondazione indoario romano, il rituale di purificazione indoario di una città e la descrizione dell’oltretomba nel rito della nekuya di una città particolare, la città dei morti, il sacro Ade.
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