La storia della sapienza greca, come felicemente tentò di innovare G.Colli il giudizio fin troppo accademico che ha riguardato la filosofia greca, la storia del pensiero greco, ha un retroterra arcaico, monumentale come le rocciose mura ciclopiche delle antiche cittadelle minoiche, come l’arcano mistero del labirinto cretese di Minosse, ove in Creta una leggenda vuole proprio lì il battesimo o almeno un passaggio del Dyonisoios basyleus, il signore del mistero bacchico, del cui mistero il citaredo Orfeo tentò più tardi con un passaggio anatolico, riuscendoci a metà, di diminuirne il primitivo crudele cannibalismo. La cosiddetta teologia antica, dove per teologia antica bisogna intendere proprio quella sapienza presocratica e dionisiaca che Aristotele tentò di occultare in qualche modo e che invece Platone cercò di indagare- non sempre con successo dobbiamo dire- nella riflessione sul mito e sul pitagorico, i cui estremi oggi sono estremamente chiari:
– il prepensiero logico e religioso,(il pensiero ‘mitico’ prima di ogni pensiero logico e religioso canonizzato),
-il pensiero arcaico o presocratico,
-il pensiero politico, cittadino, dalla sofistica a Socrate e a Platone/Aristotele
-il pensiero delle scuole riformate come quella epicurea e stoica,
-il pensiero ellenistico ed ellenistico romano fino ed oltre Plotino e Porfirio. Fino alla sua estinzione originaria ad opera di Giustiniano che decretò la non legittimità in quanto pagana nel 529 d.C della filosofia greca, con l’esilio forzato presso re Corsoe I a Ctesifonte dell’ultimo scolarca della scuola di Atene, Damascio.
Dobbiamo quindi immaginare una onda di risonanza del pensiero greco e occidentale dalle origini arcaiche di quel pensiero stesso che ha radici ancora più profonde nel pensiero vedico ed indoeuropeo (di cui il miceneo è l’allotropo radicale più vicino), fino ed oltre l’ellenismo greco romano, che se ne fece carico in modo stupefacente con i cosiddetti imperatori filosofi romani che della Grecia e della Grecia campana e dei Campi flegrei erano assidui frequentatori. Antonino Pio citato nella Historia Augusta, si rivolse così ai membri della corte imperiale che cercavano di distogliere il giovane Marco Aurelio dal piangere la morte del suo maestro e filosofo stoico Apollonio di Calcide:’ Permittite, inquit, illi, ut homo sit; neque enim vel philosophia vel imperium tollit adfectus”.(Permettetegli di essere uomo, perché non c’è filosofia o potere imperiale che possano soffocare i sentimenti.).Sembra di assistere alla scena di Socrate che sta morendo circondato dall’affetto dei suoi discepoli descritta da Platone nell’Apologia di Socrate.
Dunque il senso umano e non più crudamente barbarico che segna lo spartiacque tra arcaico e moderno è tutto qui; il sapere filosofico greco affida la sua riflessione alla sapienza della sensibilità umana, tragica come la grande filosofia tragica di Sofocle. Che viene ripetuta ogni qualvolta il destino umano s’infrange nella polarità crudele/incrudele, giusto/ingiusto, nell’abisso dell’arcaico preumano e nel più umano senso del ragionare. ‘I Giudici’ sarebbe dovuta essere l’ultima delle tragedie di Eschilo, ma ce ne è solo una eco in qualche lessicografo e niente di più. Ma l’ambiente è quello, il senso del tragico dentro la storia dell’umano, questo è l’immenso lascito che il pensiero ellenico scrive, come in Antigone tanto per capirci. Bisogna comprendere che questo lascito fu ripreso dal filoellenismo e trasmesso ai posteri dall’ellenismo e dall’ellenismo greco romano senza alcuna discontinuità fino all’editto di Giustiniano ne decretò la fine, nel 529 d. C.
Dopo la fondazione di Alessandria di Egitto, il mediterraneo fu un immenso traffico di idee oltre che di merci. L’ecumene greca e poi romana e poi paleocristiana permise al pensiero greco, al suo timbro quasi vocalico, alla sua sapienza filosofica, ‘religiosa’, scientifica e poetica, di attraversare il mondo. La filosofia e il sapere greco dominò Roma stessa fin dentro le sue ossa più calcaree con due filoni enormi, quella stoica e quella epicurea. Seneca ne segnò il senso, la nuova stoà, ma anche il suo essere magistralità rispetto alla gens Claudia. L’affidamento alle sue cure dell’Imperatore Claudio Nerone, sappiamo come finì. Tra intrighi di palazzo e suicidi. Né destino migliore era toccato a Cicerone che intendeva qui sull’Averno e Lucrino rifondare l’Accademia platonica. Ma certamente l’epicureismo campano seppe recuperare alla tragedia il suo senso quasi cosmico e questo compito se lo caricò sulle spalle ancora una volta un poeta, un campano forse nato a Nola o addirittura ad Ercolano, dove risiedeva la scuola di Filodemo di Gadara, Tito Lucrezio Caro.
Dobbiamo a lui quello che sappiamo in modo pedissequo della filosofia epicurea, dobbiamo a lui la forma del poema filosofico per eccellenza greco, il Perì fuseos, (così è anche quello di Epicuro) , la trattazione intorno alla natura, che sia l’antica filosofia teologica che quella più propriamente naturalistica preferiva come genere letterario per dire delle sue tesi, cosmologiche e naturali. Il perì fuseos era stato tra l’altro il mezzo di trasmissione del sommo eleata, Parmenide, l’antico e ombroso filosofo che in vecchiaia si permise il lusso di andare ad Atene per conoscere a che punto era la discussione sull’essere e sul non essere, come riferisce lo stesso Platone nel dialogo del ‘Parmenide’, in cui il terribile e venerando salernitano discusse col giovane Socrate. Il De Rerum natura di Lucrezio è il più grande e disciplinato monumento filosofico che l’antichità ci abbia lasciato, e la più ampia discussione sulla filosofia naturalistica greca che abbiamo, in esametri latini ma che affrontano anche filologicamente e foneticamente la grande coralità dell’epica filosofica greca, traducendola in modo esemplare nel più rivoluzionario etimo latino che si conosca.
Ecco qui l’impetuoso incipit del primo libro:
’ Aèneadùm genetrìx, hominùm divùmque volùptas,
àlma Venùs, caelì subtèr labèntia sìgna
quaè mare nàvigerùm, quae tèrras frugiferèntis
còncelebràs, per tè quoniàm genus òmne animàntum
còncipitùr visìtque exòrtum lùmina sòlis:
tè, dea, tè fugiùnt ventì, te nùbila càeli
àdventùmque tuùm, tibi suàvis daèdala tèllus
sùmmittìt florès, tibi rìdent aèquora pònti
plàcatùmque nitèt diffùso lùmine caèlum.
————–
O genitrice degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dei
Venere madre, tu che sotto i vaganti astri del cielo popoli
il mare solcato dalle navi e la terra feconda
dei tuoi frutti, ogni corpo animato grazie a te viene generato
e giunge a vedere una volta generato la luce del sole.
te o dea fuggono i venti fuggono le nuvole del cielo
grazie a te dalla terra laboriosa spuntano fiori soavi
ti sorridono le distese marine e il cielo placato splende
di un nitido chiarore diffuso.