Gaio Plinio Secondo, meglio conosciuto come Plinio il Vecchio, fu Praefectus Classis Misenensis a Capo Miseno da dove partì con le sue galee che attraversano la baia fino a Stabiae (oggi Castellammare di Stabia) per soccorrere gli abitanti colpiti dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. volendo osservare il fenomeno da vicino e per aiutare alcuni suoi amici in difficoltà sulle spiagge della baia, fra le quali Rectina (Resina), e lì muore a 56 anni probabilmente soffocato dalle esalazioni vulcaniche.
L’elenco delle opere di Plinio è lungo, ma di tutta la sua vasta produzione restano oggi pochi frammenti, l’unica opera pervenutaci è il suo capolavoro, la Naturalis historia, una vasta enciclopedia in 37 volumi su geografia, antropologia, zoologia, botanica, medicina, mineralogia, lavorazione dei metalli e storia dell’arte.
Plinio conosceva bene i Campi Flegrei e così ha ambientato un racconto della Naturalis historia al lago lucrino. Questo brano ha dato origine ad una storia popolare ancora oggi raccontata con il titolo “Il delfino Simone”.
Il bambino e il delfino (Plinio il Vecchio)
Sotto il principato del divino Augusto un delfino entrò nel lago Lucrino. Un bambino, figlio di un uomo povero, il quale soleva o andare dalla zona di Baia a Pozzuoli per frequentare la scuola, fermandosi in quel luogo a mezzogiorno, aveva preso ad attirarlo a sé, apostrofandolo col nome di Simone e dandogli da mangiare pezzettini di pane che portava per la (sua) merenda. Il delfino si affezionò in modo straordinario al fanciullo.
In qualunque momento della giornata, per quanto nascosto dalle profondità del lago, appena il bambino lo chiamava, il delfino correva da lui e, dopo aver preso il cibo dalle sue mani, offriva a lui il dorso in modo che salisse.
Per molti anni lo portò così a scuola, a Pozzuoli, per la grande distesa del lago, riportandolo poi a casa allo stesso modo. Quando un giorno il bambino morì per una malattia, il delfino ripetutamente tornò al solito luogo, triste e uguale a una persona afflitta; alla fine anche lui (il delfino), per quanto incredibile possa apparire, morì dal dispiacere.
Il testo latino:
“Divo Augusto principe Lucrinum lacum invectus pauperis cuiusdam puerum ex Baiano Puteolos in ludum litterarium itantem, cum meridiano immorans appellatum eum simonis nomine saepius fragmentis panis, quem ob iter ferebat, adlexisset, miro amore dilexit. pigeret referre, ni res Maecenatis et Fabiani et Flavii Alfii multorumque esset litteris mandata. quocumque diei tempore inclamatus a puero, quamvis occultus atque abditus, ex imo advolabat pastusque e manu praebebat ascensuro dorsum, pinnae aculeos velut vagina condens, receptumque Puteolos per magnum aequor in ludum ferebat simili modo revehens pluribus annis, donec morbo extincto puero subinde ad consuetum locum ventitans tristis et maerenti similis ipse quoque, quod nemo dubitaret, desiderio expiravit.“.
Il rapporto dell’uomo con il mare
Il mare nella vita dell’uomo ha sempre rappresentato un elemento senza spazio ne tempo, generatore di sogni ed avventure, di favole e leggende.
Fin dalla più remota antichità per le popolazioni mediterranee il mare rappresenta una fonte di sostentamento fondamentale, acquistando così una valenza che va oltre l’aspetto alimentare diventando l’oggetto di forme artistiche quali mosaici pavimentali, affreschi parietali, vasi, monete e oggetti d’ornamento personale.
Rif. immagini: Il dipinto dei delfini -XVII-XV secolo a.C. – intonaco su pietra – dal megaron della regina nel palazzo di Cnosso, Creta, Siracusa, tetradracma, 485-65 a.C ca (Bibloteca Apostolica Vaticana), Dracma coniata circa 380 a.C. da un verso Testa di Atena, con elmo corinzio decorato con corona, dall’altro verso stella di mare tra due delfini, Kilix di Dioniso, Ekekias (550-530 a.C.), Dioniso in posizione simposiaca su una imbarcazione naviga tra i delfini; nella porzione superiore dello spazio pittorico un vitigno e grappoli d’uva.
Altre storie sono incentrate sulla collaborazione dei delfini con i pescatori che, come narra Plinio, li chiamano a gran voce con l’appellativo di “Simone”, che deriverebbe dal greco simòs da cui il latino simus con il significato di “camuso”, riferito al muso dell’animale. I delfini accorrono e spingono verso le reti i branchi di pesce, nuotandogli intorno per evitarne la dispersione, poi ricompensati con parte della preda.
Plinio parla ampiamente dei delfini, in particolare, pone il problema della loro natura di mammiferi e del loro modo di respirare, e anche sulla loro caratteristica di emettere suoni simili alla voce umana.
Ha scritto: «Il delfino è il più veloce di tutti gli animali, non solo di quelli marini; egli supera in velocità l’uccello e la saetta. I delfini, contro la natura degli altri animali d’acqua, hanno lingua mobile, corta e larga, poco differente da quella del maiale. Invece della voce producono un gemito simile a quello dell’uomo, hanno la schiena arcuata, il muso schiacciato, che in latino si dice simo e perciò tutti meravigliosamente li conoscono questo nome, Simone, ed hanno caro d’essere così chiamati. Sono i delfini non solo amici dell’uomo, ma anche della musica e soprattutto si dilettano del suono degli organi».
Bacco e i marinai di Acete. (Ovidio, Metamorfosi).
Bacco fanciullo viene rapito, ebbro, dai pirati tirreni che non lo avevano riconosciuto. Il dio chiede di essere condotto all’isola di Nasso, sua dimora, ma, vedendo che navigavano nella direzione opposta, si rende conto che costoro volevano venderlo come schiavo.
Il timoniere Acete, l’unico ad aver capito la natura divina del fanciullo, cerca di dissuadere i compagni da tale intento, ma viene deriso.
Bacco, compreso l’inganno che gli era stato teso, si manifesta in tutta la sua potenza. Il Dio scatena la sua ira, trasformando i remi in serpenti, aggrovigliando il vascello nell’edera e paralizzandola con tralci di vite, finché i pirati non si gettarono in mare impauriti, trasformandoli in delfini per punizione.
Da allora essi sono amici degli uomini e si adoperano per salvarli dai flutti, come espiazione e pentimento dell’antico misfatto. L’unico a salvarsi è Acete che diventerà un seguace del dio.
Arione di Metimna (Erodoto, Storie – Igino, Fabulae)
Arione era un musico di Lesbo al quale il tiranno di Corinto, suo padrone, aveva concesso il permesso di viaggiare per la Magna Grecia e la Sicilia, per arricchirsi grazie al suo canto.
Quando volle tornare in patria, i marinai della nave su cui era imbarcato congiurarono per ucciderlo e derubarlo.
Ma Apollo, in sogno, lo avvertì del pericolo e gli promise il suo aiuto, così quando i marinai lo aggredirono, Arione ottenne di poter cantare un’ultima volta.
Al suono della sua voce accorse verso la nave un branco di delfini e Arione, convinto dell’aiuto promesso, si tuffò in acqua dove venne raccolto da un delfino, che lo condusse illeso a riva.
Quando fu al sicuro sulla terraferma Arione dedicò un ex-voto ad Apollo e tornò alla nativa Corinto.
In ricordo di quell’evento, Apollo trasformò la strumento musicale di Arione e il delfino che lo aveva soccorso nella costellazione della Lira.
Pesce come simbolo religioso
Nella mitologia babilonese il Dio della sapienza indossava le vesti del pescatore, mentre il Dio degli abissi è raffigurato come pesce-ariete e i suoi sacerdoti portavano un copricapo a forma di pesce, da cui successivamente si evolse la mitra dei vescovi cristiani.
Presso i Greci sono numerose le divinità con forme di pesce o rappresentate nell’atto di cavalcare delfini e ippocampi.
Il pesce è sacro ad Afrodite come simbolo di fecondità e associato a Poseidone personifica la forza; presso i Romani ha gli stessi significati in relazione a Venere e a Nettuno.
Per gli Israeliti il pesce è l’alimento della cena sacra del Sabbathe per i Cristiani il pescatore è il raccoglitore di anime e il pesce rappresenta il Salvatore, tanto che nella parola greca ICHTHUS (pesce) si sono riconosciute le iniziali delle parole Iesùs CHristòs THeù Uiòs Sotér, cioè Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore.
E’ sempre presente nell’iconografia, non solo religiosa: per esempio nella Casa del Tridente, a Delo, abbiamo una decorazione musiva pavimentale che rappresenta un ancora con un delfino.
Lo stesso Pausania racconta, in Descrizione della Grecia, tra le sue svariate storie incentrate sui delfini, che lo spartano Falanto, soccorso da un delfino durante il naufragio della sua nave, fu da questi trasportato fino alle coste dell’Italia meridionale, dove fondò la città di Taranto.
Origini di Taranto (Pausania – Periegesi della Grecia)
Falanto era un valoroso guerriero che aveva condotto gli Spartani alla vittoria contro i Messeni, ma dopo quella guerra, a Sparta vi furono vivaci agitazioni interne perchè i Parteni (un gruppo emarginato di spartani), a cui Falanto apparteneva, reclamavano il riconoscimento dei diritti civili, ma venivano osteggiati.
Chi erano i Parteni! Durante la guerra le donne spartane si lamentavano perché non potevano procreare in quanto i loro uomini erano impegnati al fronte così furono allora richiamati in patria alcuni soldati, gli Spartiati, allo scopo di incrementare le nascite.
I giovani nati da Spartiati e donne spartane non sposate venivano chiamati “Parteni” (che significa “figli di vergini”) e non avevano diritti politici perché ritenuti figli illegittimi.
I Parteni, che non avevano molte speranze di essere considerati al pari di altri cittadini Spartani, preferirono trasferirsi altrove.
A capo di questo gruppo di fuoriusciti vi era proprio Falanto, pronto a cominciare una nuova vita con i suoi compagni, ma, prima dell’allontanamento dalla Madre Patria, Falanto volle consultare l’Oracolo di Delfi per sapere cosa lo attendesse in futuro.
Questo fu il responso che Falanto sentì pronunciare:
“Quando vedrai piovere dal ciel sereno, conquisterai territorio e città”.
Così Falanto si fece coraggio e si preparò a intraprendere il viaggio insieme agli altri Parteni.
Il naufragio e il delfino
La traversata in mare fu piena di avversità. Venti contrari li spinsero verso il mare Egeo e qui la nave fece naufragio, ma ecco che un delfino giunse in soccorso di Falanto e lo portò a riva da dove riuscì a coordinare i soccorsi in favore dei suoi compagni e la nave fu riparata alla meglio e pronta a ripartire.
Per molto tempo i Parteni navigarono senza meta, e Falanto fu persino tormentato dal dubbio che il vaticinio non dovesse mai avverarsi, ma un giorno, stremato, si addormentò sulle ginocchia della moglie Etra, il cui nome significa “cielo sereno” la quale, pensando alle sventure vissute dal marito, cominciò a piangere. Le sue lacrime destarono Falanto.
Fu un’illuminazione. Le parole oscure dell’oracolo furono finalmente interpretate: aveva piovuto dal cielo sereno. Evviva.
In quel momento Falanto e i suoi compagni si trovavano nel golfo di Saturo, alla foce del fiume Tara, ed è qui che fondarono una nuova città che chiamarono Taranto in onore di Taras, l’eroe che secoli prima era giunto in quegli stessi luoghi.
Nell’inno omerico dedicato ad Apollo (Inno omerico ad Apollo v. 535), si narra che un giorno si incarnò in un delfino e balzò su una nave di mercanti cretesi diretti a Pilo, dirottandola verso Crisa, il porto ove poi sarebbe sorto il santuario di Delfi e dove egli aveva già ucciso il mostro Pitone. (Delfòi -Delfi- si chiamò così appunto da delfìs, delfino). Quei marinai cretesi furono preposti dal dio quali primi custodi e sacerdoti del santuario.
Plinio e l’identificazione dei delfini
L’Istituto Tethys ONLUS è una organizzazione senza fini di lucro dedicata alla conservazione dell’ambiente marino attraverso la ricerca scientifica e la sensibilizzazione del pubblico; fondato nel 1986, ha sede presso l’Acquario Civico di Milano.
Il programma Cetacean Sanctuary Research (CSR) è nato per osservare balene e delfini nel Santuario del mar Ligure, nel loro ambiente naturale, e contribuire nel contempo alla loro sopravvivenza e alla conservazione delle popolazioni. L’area di studio fa parte del Santuario Pelagos, la prima area protetta d’alto mare del mondo, che vanta probabilmente la maggior concentrazione di balene e delfini del Mediterraneo.
Il biologo marino Giuseppe Notarbartolo di Sciara, presidente onorario dell’Istituto Tethys, mentre studiava il IX libro dell’opera di Plinio il Vecchio Naturalis Historia è stato folgorato da una frase.
Plinio il Vecchio, noto per la sua passione naturalistica, scrive che la determinazione dell’età di alcuni delfini poteva essere fatta grazie al riconoscimento dei singoli attraverso tacche sulle loro code.
Nell’opera di Plinio si legge: “Crescono in fretta, e si ritiene che raggiungano la taglia massima all’età di 10 anni. Possono vivere fino a 30 anni, come è stato scoperto attraverso l’incisione di tacche sulla loro pinna caudale” (Adolescunt celeriter, X annis putantur ad summam magnitudinem pervenire. Vivunt et tricenis, quod cognitum praecisa cauda in experimentum).
Notarbartolo spiega: “Si credeva che la capacità di distinguere un delfino da un altro fosse una prerogativa degli scienziati del ventesimo secolo” – – “ma non è affatto così”.
Infatti, la presenza di queste tacche rende ogni delfino diverso dai suoi simili e ne permette il riconoscimento anche a distanza di anni. Oggi questa tecnica prevede l’analisi di fotografie digitali della pinna dorsale, o di altre parti del corpo, ed è chiamata foto-identificazione. “E’ un metodo di notevole importanza in quanto consente di ottenere dati utili a fini di conservazione” commenta Notarbartolo.
Grazie a un enorme numero di foto, Tethys ha potuto identificare individualmente più di 1300 cetacei appartenenti a sette diverse specie presenti in Mediterraneo. Fino a oggi si riteneva che il primo caso di osservazione a lungo termine di cetacei basata sul riconoscimento individuale fosse quello di Pelorus Jack – un grampo osservato dal 1888 al 1912 nello Stretto di Cook, in Nuova Zelanda.
Plinio il Vecchio sposta la data di questo metodo scientifico di circa 1811 anni!
Foto di copertina: il mosaico dei delfini al Palazzo Romano di Fishbourne, West Sussex, in Inghilterra. (Libero dominio).