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il lavoratore non è uno schiavo, seppure fosse stagionale

Da mercoledì 19 maggio, seppure per gradi, l’Italia del covid prova a ripartire. Una ripresa lenta, graduale, ma si riparte. Tralasciando quali possano essere i reali motivi di questa ripartenza secondo alcuni azzardata, sui media è in corso una discussione alimentata dalle parole pronunciate dal Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca in una delle sue ultime dirette Facebook. Stando al Governatore la difficoltà dei ristoratori, ma non solo, di reperire stagionali durante il periodo estivo sarebbe colpa del reddito di cittadinanza: “Per le attività stagionali non si trova più personale. È uno dei risultati paradossali del reddito di cittadinanza. Se tu mi dai 700 euro al mese e io mi vado a fare qualche doppio lavoro, io non ho interesse ad alzarmi la mattina alle 6 per andare a lavorare.”

Quest’affermazione, però, è clamorosamente smentita dai dati secondo cui, già prima dell’introduzione del reddito di cittadinanza, nel 2018 il settore turistico faticava a trovare stagionali: UNIONCAMERE e ANPAL calcolavano nel 20% la difficoltà di reperimento di manodopera nel periodo estivo, come riferisce Il Fatto Quotidiano del 18 maggio u.s.

E allora, quale potrebbe essere la causa reale di questa improvvisa penuria di manodopera?

Possibile che nessuno abbia preso in seria considerazione l’eventualità che gli individui, per lo più giovani e disoccupati, sono stufi di lavorare per 3 euro all’ora, quando gli va bene, mentre il minimo dovrebbe essere 8,62 all’ora? Che molti sono stanchi d’essere trattati da schiavi, vedendosi pagare 30 euro una giornata di 10 ore di lavoro continuato sette giorni su sette, in cucina, in sala o sotto il sole, che, tolte le spese, diverrebbero circa 2 euro all’ora, se non addirittura meno? Che una parte sia delle nuove che delle vecchie generazioni possa avere un moto di orgoglio, di dignità, rifiutandosi di lavorare per una paga da miseria, da vero e proprio caporalato?

In più occasioni Papa Francesco ha messo in risalto quella che, a suo dire, dovrebbe essere la funzione del lavoro – salvaguardare la dignità dell’individuo, dandogli la possibilità di guadagnare quel tanto che consenta a sé e alla sua famiglia di vivere dignitosamente –  suscitando la condivisione prima di tutto degli imprenditori che incontrò in udienza a inizi dicembre 2016.

Sarebbe interessante sapere quanti di loro hanno fatte proprie le parole del Santo Padre, mettendole in pratica nel loro rapporto con i dipendenti…

Fare impresa non significa arricchirsi sulle spalle dei lavoratori. Fare impresa, come insegnò Adriano Olivetti, prima di tutto significa creare una realtà sociale dove il lavoratore si senta parte integrante, trovando stimoli e spunti per la propria crescita non solo economica e professionale ma prima di tutto personale.

Fino a quando l’Italia sulla Carta sarà “una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, ma poi nella realtà il crescente tasso di disoccupazione, alimentato da politiche che tutelano sempre più gli interessi delle imprese e sempre meno quelli dei lavoratori, farà di quella stessa Carta carta straccia, paradossalmente potremmo azzardarci a definire l’Italia un paese che, in barba alla Costituzione, si fonda sempre più sulla disoccupazione e la disuguaglianza sociale.

Così come non è assolutamente da biasimare chi sottostà a questa subdola forma di ricatto perché ha assoluto bisogno di soldi per poter sopravvivere, altrettanto non lo è chi invece rifiuta di lavorare per pochi spiccioli, salvaguardando la propria dignità di individuo. Consapevole che in questo modo sarà costretto a mettersi in fila alla Caritas per mangiare e trovare un alloggio di emergenza per trascorrere la notte. Nella migliore delle ipotesi, dovrà continuare a vivere coi genitori o tornarvi a vivere. Se invece è sposato e ha il coniuge che lavora, stringere la cinghia in attesa di tempi migliori, sperando che la vita non gli serbi altre amare sorprese.

È vero, per uno che rifiuta alle sue spalle c’è un’interminabile fila di disperati pronti a prenderne il posto a un prezzo inferiore. Ma se qualcuno non incomincia a puntare i piedi perché il lavoro è un diritto e non un privilegio che giustifica lo sfruttamento, rifiutandosi d’essere trattato come pezza da piedi, potremmo riempirci la mente e la bocca di begli ideali e belle parole. Alla fine non saremo soltanto degli schiavi, ma prima di tutto complici dei “caporali” e dunque causa della nostra stessa rovina.

Lavorare è un conto, essere sfruttati un altro.

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Vincenzo Giarritiello
Nato a Napoli, ma da oltre vent’anni residente a Pozzuoli, Vincenzo Giarritiello alterna all’attività di scrittore quella di giornalista per passione. Nel 1997 ha pubblicato “L’ultima notte e altri racconti” e nel 1999 “La scelta”. Nel 2017 ha ristampato “La scelta” e nel 2018 ha pubblicato il romanzo breve “Signature rerum” ambientato nei Campi Flegrei. Nel 2019 ha stampato “Le mie ragazze rom scrivono” e “Raggiolo uno scorsio di paradiso in terra”. Nel 2020 ha editato la raccolta di racconti “L’uomo che realizzava i sogni”. Ha pubblicato con le Edizioni Helicon il romanzo “Il ragazzo che danzò con il mare”. Ha collaborato con le riviste online “Giornalewolf.it” e “Comunicare Senza Frontiere”; con quelle cartacee “Memo”, “Il Bollettino Flegreo”, “Napoli Più”, “La Torre”. Fino al 2008 ha coordinato laboratori di scrittura creativa per ragazzi a Pozzuoli e all’Istituto Penitenziario Minorile di Nisida. Attualmente collabora con l’associazione culturale Lux in Fabula con cui ha ideato la manifestazione “Quattro chiacchiere con l’autore”. Nel 2005 ha attivato il blog “La Voce di Kayfa” e nel 2017 “La Voce di Kayfa 2.0”. Dal 2019 è attivo il suo sito www.vincenzogiarritiello.it
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